difficile continuare la storia che i pennelli






Capitolo 15
Piccoli piedi sporchi di sabbia, curve scure nella penombra; Un ventre snello, dalla luna screziato in disegni di cerchi concentrici avente per centro l’ombelico, richiamavano gli anelli di un tronco reciso. Seni argentei, acqua che cade sull’acqua, uno scrosciare sempre più forte. Un mento severo aprirsi in un viso dolce incorniciato da lunghi capelli di seta, occhi schiudersi lentamente. Il suono della cascata che si fa rumore, incessante e martellante. Dagli occhi della donna esce luce bianca e pura, più vivida di secondo in secondo. Un boato simile ad una mandria di bufali in fuga, la luce ormai accecante, rumore incessante, ora tutto è bianco, gli occhi bruciano, le orecchie fremono. Poi d’un tratto: buio. Silenzio. Nero. Vuoto.
Il Bottegaio si svegliò di soprassalto nel suo letto, al piano superiore della locanda. Gli eventi del giorno prima avevano evidentemente lasciato un segno. Un vociare concitato animava il villaggio normalmente silenzioso e tranquillo. Il Bottegaio, alzandosi, scorse un gran viavai fuori dalla finestra. Si vestì lentamente, indebolito dalla notte di cattivo riposo. Uscì dalla stanza e scese di sotto. Il salone grande della locanda era affollato. Si avvicinò al bancone e salutò la giovane figlia della Locandiera. “Da dove esce tutta questa gente?” le domando. “Ogni anno, quando la foresta trema per l’arrivo del circo, le genti dei villaggi vicini si mettono in marcia per vedere il grande show! E’ un evento importante per la nostra comunità, nonostante i rapporto altalenanti che i circensi hanno con alcuni suoi membri”. Il Bottegaio ringraziò la giovane ragazza e uscì a godersi quella piacevole diversità. Non era un amante delle folle, era un amante del folle. La monotonia lo tormentava, l’incubo più grande? un sogno normale. Dopo tanto tempo trascorso in una piccola comunità, quella diversità interpretata da una fiumana di gente lo confortava.
Ben presto si rese conto di essere stato arrogante. Pensava che fosse stata la fortuna, a suo unico appannaggio, a portarlo in un villaggio tanto singolare. Pensava quasi fosse stato destino a condurlo fra quelle poche case piene di misteri. La verità era tutt’altra e ora palese ai suoi occhi: In quelle terre, tutti i villaggi dovevano essere stravaganti. Passò il pomeriggio a giocare a carte con gli abitanti di un villaggio a una sola notte di distanza. Il capo-villaggio portava un buffo cappello verde con centinaia e centinaia di piccole punte trasparenti all’estremità, simili al dorso di un porcospino. Quando l’uomo sotto il cappello rideva, le punte si accendevano di una luce azzurrognola. Quando perdeva una mano, si scurivano in un grigio terso.
Mangiò al chiosco di un altro villaggio che vendeva solamente insetti fritti, serviti dentro una salsa di miele rappreso. Con una vecchia amica della Pasticcera, proveniente da un villaggio sulle montagne, bevve una cioccolata calda contenente radici dispettose. Infondevano alla bevanda un fantastico sapore d’aria d’alta quota, ma avevano la controindicazione di causare solletico alle piante dei piedi. Assaggiò la birra proveniente da un villaggio ad est, la cui caratteristica schiuma viola colorava baffi e labbra per diverse ore, scambiò un vecchio scalpello con un piccolo marchingegno che prometteva di utilizzare la luce del sole per disegnare con il fuoco, e poco prima di tornare alla locanda per la cena, dovette discutere con un signore anziano che trovava offensivo il suo taglio di capelli troppo lungo.
Varcò il portone di legno e chiuse la porta dietro di se. Il movimento d’aria fece balenare le numerose candele già accese all’interno. Lo stanzone era molto diverso dal solito. Il grande tavolo di legno robusto che ne adornava il centro era sparito. Con lui erano sparite anche le poltrone davanti al fuco e i piccoli tavolini, grandi a sufficienza per far stare giusto un paio di boccali, che normalmente erano sparpagliati qua e la. Al loro posto c’erano una decina scarsa di tavole da pranzo, rotonde e ben apparecchiate. Le sedie erano tutte rivolte verso un angolo, dove sopra ad una piccola pedana, era stato posizionato un maestoso pianoforte a coda bianco. Un uomo, vestito di una eleganza impeccabile che contrastava atrocemente con la rustica locanda, scorreva le dita sui tasti di ebano ed avorio con grazia e magistrale conoscenza. Aveva gli occhi chiusi ed il busto che ondeggiava al ritmo della musica che componeva. Era evidente: amava suonare e suonava principalmente per se stesso. Naturale, calma, sensuale… non avrebbe potuto iniziare un secondo prima, ne un secondo dopo, creando lo stesso armonioso effetto. Quella voce era entrata in scena e, prima ancora che la fonte si rivelasse, era già al centro dell’attenzione. I pochi commensali che ancora rumoreggiavano, tacquero. Parve uscire da un ombra, forse un telo, forse un trucco… La poca luce del locale la avvolse timidamente, un po’ per volta. Lei avanzava lentamente, cantando piano, quasi parlando. Tutto in lei era accentrante. Voleva essere guardata, voleva essere ascoltata, pretendeva la totale attenzione, la totale dedizione, e sapeva come ottenerla. Quello sguardo, ora mellifluo, ora severo. Ora appassionato, ora malinconico. Passava da uno spettatore all’altro creando ansia ed attesa. Desiderio e timore. Superando il pianista gli passò una mano fra i capelli, arruffandoli. Lui sorrise mentre lei andò ad appoggiarsi sulla coda del pianoforte. Vi poggiò la mano sinistra, avvolta nel rosso intenso di un guanto di seta che le superava il gomito. Alzando quasi impercettibilmente il volume della voce alzò anche una gamba e, con sensualità che non può essere imparata, andò a poggiarla sullo strumento, sedendocisi sopra e rivelando parte dell’interno coscia. Il vestito da sera, anch’esso rosso come gli ultimi momenti di una giornata, era vertiginosamente corto e lasciava ben poco all’immaginazione. La scollatura bassissima, copriva curve generose. I capelli, scarlatti, si muovevano in onde setose mosse da un’aria assente, e ricadevano sulle spalle nude, il cui unico adorno era un piccolo tatuaggio: due lettere, in bella calligrafia, recitanti “J.R.”.
Le labbra, anch’esse truccate di rosso, erano un’abbagliante sipario che si apriva sulla purpurea lingua danzante fra bianche perle, nel comporre un canto incantato, con effetti simili a quelli delle sirene sui marinai.
(N7 in scala, nodone da 30 Fan shape. Radica di Erica colorata)
Il Bottegaio restò ad ascoltarla tutta la sera, sorseggiando distillati e viaggiando lontano con il pensiero. Ispirato da quella musica e quella voce, fece pensieri d’ogni genere, dai più alti ai più meschini. La musica e quel beato canto, come la chiave di una prigione, gli avevano permesso d’evadere, riposando l’anima dall’angusta reclusione alla quale la mente d’un uomo può condannarla.
Quando si alzò per salire in camera, le gambe lo reggevano malferme sotto gli effetti dell’alcol. Arrivato alle scale, volle girarsi per guardarla un ultima volta. Non seppe mai se quella notte vide giusto o se l’abbia voluto immaginare, un po’ per gioco, un po’ per sbornia, ma gli parve che la Donna Di Rosso lo osservo mentre se ne andava. Da prima lo guardò con sguardo triste, poi, con un sorriso ed un occhiolino, lo congedò.