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Apparizione dei primi Metalli
Anche solo abbozzare una scala cronologica plausibile circa l’impiego dei metalli risulta però estremamente difficoltoso, anche perché buona parte della produzione metallurgica è stata soggetta a numerosi ricicli. Se si volesse tentare di delineare una scala cronologica sulla base di dati relativi ai ritrovamenti archeologici è interessante notare che le datazioni più antiche si riferiscono al rame e al piombo, mentre l’oro sembra essere stato utilizzato solo successivamente nonostante il suo impiego richiedesse abilità solo nella capacità di deformare il materiale per conferirgli la forma desiderata, poiché l’oro non si trova sotto forma di minerale ma in forma metallica. D’altra parte, sorge il dubbio che, dato il pregio dell’oro, i manufatti più antichi in tale metallo siano stati rifusi, come nei secoli è capitato a tante altre leghe metalliche.
C’è quindi incertezza in molti studiosi se sia l’oro, l’argento o il rame il primo metallo ad essere utilizzato dall’uomo; a nostro avviso, dall’esame dell’affinità dei metalli per l’ossigeno, che permette di strutturare una classifica della resistenza dei metalli ai fenomeni ossidativi (oro-argento-rame-piombo-stagno-ferro), sembrerebbe plausibile pensare che il primo metallo ad essere utilizzato sia stato l’oro: per l’inalterabilità agli agenti atmosferici, deve essere stato il primo metallo ad attrarre l’attenzione dell’uomo. Moltissime sono le testimonianze raccolte nei musei di pepite anche di notevoli dimensioni che mostrano visivamente l’indiscussa proprietà di tale metallo ad esistere in natura allo stato metallico.
L’oro, per disgregazione delle rocce aurifere che costituiscono i giacimenti primari, passa nelle sabbie dei fiumi. Il classico metodo di estrazione tramandato dall’antichità è quello del lavaggio delle sabbie aurifere, basato sulla forte differenza di peso specifico tra l’oro (19,32 gr/cm3), il quarzo e i silicati delle sabbie, assai più leggeri (2-4 gr/cm3): una corrente di acqua asporta più facilmente questi ultimi, concentrando le particelle d’oro più pesanti. Sembra incredibile come al giorno d’oggi questa tecnica sia ancora utilizzata . Testimonianze d’argento e rame allo stato natio si sono potute verificare anche ai tempi nostri. E’ indiscutibile tuttavia che l’uomo provi a lavorare queste nuove “pietre” come ha imparato a fare con le altre e s’accorge che si ammaccano, cambiano un po’ forma; batti e ribatti, anziché scheggiarsi si appiattiscono, si assottigliano.
Inquadramento cronologico e geografico
La datazione dei primi reperti metallici effettuata mediante la rilevazione del decadimento del Carbonio 14 ha evidenziato che essi possono essere cronologicamente collocati tra il 6500 a.C. ed il 4500 a.C.. La comparsa di tali oggetti si colloca geograficamente in aree
assai limitate nelle zone dell'Anatolia, della Mesopotamia e della Persia (circa 6500 a.C) e, in seguito, nella zona dei Balcani (circa 4500 a.C.). La scarsità dei ritrovamenti risalenti a tale periodo ed il fatto che gran parte dei materiali metallici utilizzati non siano estratti dai minerali, ma siano ottenuti da giacimenti, in cui si presentano allo stato nativo, oppure in depositi di origine meteorica, sembrano indicare che il grado di specializzazione dei primi artigiani metallurgici non sia particolarmente elevato.D’altra parte, in tale periodo, ancora caratterizzato da un’economia di sussistenza, che vede nell’organizzazione sociale dei villaggi il proprio fulcro, non vi è la possibilità di sviluppare con continuità quelle competenze tecniche specialistiche e quegli scambi commerciali, che avrebbero caratterizzato l’ultima parte del neolitico. L’insorgere di competenze tecniche specialistiche più avanzate durante il tardo neolitico è, per esempio, testimoniato da ceramiche rinvenute nelle regioni
balcaniche e caratterizzate da pareti di spessore sottile, decorate cromaticamente e cotte ad elevata temperatura che paiono suggerire la presenza di gruppi di artigiani che hanno raggiunto un ragguardevole livello tecnico in tali lavorazioni. Se tale ipotesi fosse verificata, è plausibile pensare che l’elaborazione di tecniche specialistiche sia stata resa possibile da un avanzo di produzione agricola e da un miglioramento nell’approvvigionamento alimentare, che permette a diversi individui di liberarsi dall’attività di coltivazione ed allevamento, per dedicarsi ad altre occupazioni che, come la lavorazione dei metalli, richiedono un impegno di tempo e di addestramento, tale da escludere l’esercizio di
altre attività produttive.
Aree geografiche interessate dai piu' antichi reperti metallici
Un tale lento processo di avanzamento tecnico continua durante quello che gli storici chiamano Calcolitico o Eneolitico, ossia il periodo della preistoria caratterizzato dalla presenza contemporanea di manufatti in rame e in pietra. In ogni caso, è interessante che i primi oggetti metallici lavorati siano a base di oro o di rame. Infatti, l’oro ed il rame possono essere rinvenuti allo stato nativo, poiché mostrano nessuna o
scarsa tendenza a combinarsi con ossigeno o zolfo a formare dei minerali. La nuova strutturazione sociale imposta dalla specializzazione delle lavorazioni implica e accompagna la nascita di un nuovo modello, differente da quello del villaggio agricolo-pastorale,
ossia la formazione di agglomerati urbani. E’ interessante notare che l’attività metallurgica documentata cresca di intensità attorno al 3000
a.C., proprio nelle regioni in cui compaiono le prime significative testimonianze di comunità urbane presenti nell’area della cosiddetta mezzaluna fertile , dove la produzione agricola, favorita da fertili terreni e dalla disponibilità idrica, è in grado di raggiungere quell’eccedenza necessaria ad attivare i commerci ed i processi di specializzazione professionale.
In concomitanza con le prime tracce di consistenti insediamenti urbani intorno al 3000 a.C. si incrementano le prime produzioni di bronzi che, peraltro, indicano pure l’instaurarsi di intense attività commerciali necessarie per l’approvvigionamento del rame e dello stagno.
Tali tecniche si estendono successivamente dal Medio Oriente verso le regioni greche (2500 a.C.) e a quelle italiane (2300 a.C.), fino a penetrare nelle regioni dell’Europa Centrale (2000 a.C.). L’area geografica della mezzaluna fertile interessata dai più antichi ritrovamenti relativi all’Età del Bronzo.
Mappa concernente la nascita della metallurgia nel bacino del mediterraneo e nelle aree geografiche ad esso limitrofe.
Apparizione dei primi metalli
Anche solo abbozzare una scala cronologica plausibile circa l’impiego dei metalli risulta però estremamente difficoltoso, anche perché buona parte della produzione metallurgica è stata soggetta a numerosi ricicli. Se si volesse tentare di delineare una scala cronologica sulla base di dati relativi ai ritrovamenti archeologici è interessante notare che le datazioni più antiche si riferiscono al rame e al piombo, mentre l’oro sembra essere stato utilizzato solo successivamente nonostante il suo impiego richiedesse abilità solo nella capacità di deformare il materiale per conferirgli la forma desiderata, poiché l’oro non si trova sotto forma di minerale ma in forma metallica. D’altra parte,
sorge il dubbio che, dato il pregio dell’oro, i manufatti più antichi in tale metallo siano stati rifusi, come nei secoli è capitato a tante altre leghe metalliche. C’è quindi incertezza in molti studiosi se sia l’oro, l’argento o il rame il primo metallo ad
essere utilizzato dall’uomo; a nostro avviso, dall’esame dell’affinità dei metalli per l’ossigeno, che permette di strutturare una classifica della resistenza dei metalli ai fenomeni ossidativi (oro-argento-rame-piombo-stagno-ferro), sembrerebbe plausibile pensare che il primo
metallo ad essere utilizzato sia stato l’oro: per l’inalterabilità agli agenti atmosferici, deve essere stato il primo metallo ad attrarre l’attenzione dell’uomo. Moltissime sono le testimonianze raccolte nei musei di pepite anche di notevoli dimensioni che mostrano visivamente
l’indiscussa proprietà di tale metallo ad esistere in natura allo stato metallico. L’oro, per disgregazione delle rocce aurifere che costituiscono i giacimenti primari, passa nelle sabbie dei fiumi. Il classico metodo di estrazione tramandato dall’antichità è quello del lavaggio
delle sabbie aurifere, basato sulla forte differenza di peso specifico tra l’oro (19,32 gr/cm3), il quarzo e i silicati delle sabbie, assai più leggeri (2-4 gr/cm3): una corrente di acqua asporta più facilmente questi ultimi, concentrando le particelle d’oro più pesanti. Sembra incredibile come al
giorno d’oggi questa tecnica sia ancora utilizzata . Testimonianze d’argento e rame allo stato natio si sono potute verificare anche ai tempi nostri.
E’ indiscutibile tuttavia che l’uomo provi a lavorare queste nuove “pietre” come ha imparato a fare con le altre e s’accorge che si ammaccano, cambiano un po’ forma; batti e ribatti, anziché scheggiarsi si appiattiscono, si assottigliano.
Figure di Widmanstätten su una meteorite incisa con acido
Cenni sulla riduzione dei primi materiali
Con l’esaurimento dei metalli allo stato nativo ritrovabili sulla superficie terrestre, l’uomo è costretto a seguire le sue tracce nelle viscere della terra continuando così quella tecnica mineraria iniziata con la ricerca delle miniere di selce. Non è stato ancora possibile stabilire con certezza l’ubicazione delle antiche attività estrattive come pure i siti su cui siano state realizzate le prime operazioni di estrazione dei metalli dai loro minerali;
la presenza di antiche tracce di un gran numero di giacimenti metalliferi sono state rinvenute nelle
regioni montuose che si estendono fino al corso inferiore del Tigri: tra i giacimenti più importanti sono certo da ricordare quelli di rame in prossimità delle sorgenti del Tigri stesso, noti in Mesopotamia fin dall’approssimarsi del III millennio con il nome di Argana. La notevole
importanza attribuita alla zona pontica dell’Anatolia, come pure di qualche luogo dell’Anatolia centrale, è legata alla ricchezza delle sue risorse minerarie che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nello sviluppo delle primitive civiltà anatoliche: i ricchi giacimenti di rame e di piombo che si accompagnano anche a più esigue quantità di oro e argento, nonché i siti di estrazione dei minerali di ferro sono risultati di estrema importanza nello sviluppo della metallurgia estrattiva di questa regione. Il riconoscimento delle vene dei vari minerali si realizza appunto “cercando”, aiutati da un acuto spirito di osservazione sul colore delle rocce, sulla vegetazione più o meno rigogliosa circostante, sulle informazioni rilasciate dal limo nell’acqua e sulla conformazione stessa delle rocce. Certamente le più antiche escavazioni sono state realizzate seguendo le vene dei filoni affioranti in superficie. E questo minerale doveva essere portato allo stato metallico. Con il termine di riduzione di un metallo s’intende un’operazione in grado di estrarre un elemento metallico da un suo minerale nel quale si trova combinato con altri elementi (es. ossigeno, zolfo, cloro, fluoro, ecc.). La prima operazione della metallurgia estrattiva si chiama riduzione, poiché il metallo vede diminuire il numero di elettroni (riduce appunto), che esso deve cedere ad un altro elemento. E questo perché la quasi totalità dei metalli nelle abituali condizioni ambientali non sono in equilibrio termodinamico ma tendono a trasformarsi nei loro composti, i più comuni dei quali sono ossidi, idrossidi, carbonati, solfati, cloruri, ecc. secondo dei processi ai quali non vanno in genere soggetti unicamente quei metalli, come il platino, l’oro e l’argento che, proprio per questo motivo vengono detti “nobili”. Il concetto di riducibilità di un composto è legato alla facilità con cui è possibile separare il metallo
dalla specie chimica con esso combinata, ossia dalla facilità con cui appunto è possibile ridurre il metallo. Questa è l’operazione fondamentale appunto della metallurgia estrattiva che, pur ignari dei principi chimico fisici, gli antichi metallurghi avevano imparato a realizzare. Stante quanto detto sinora, è evidente che sia più semplice separare un metallo a partire da ossidi facilmente riducibili anziché da ossidi di difficile riducibilità. Una scala di questa possibilità di ridurre un metallo a partire da un composto è stata rappresentata dai moderni metallurgisti attraverso il diagramma dei potenziali.
Sono diversi gli studiosi che non escludono che i primi forni usati per estrarre i metalli dai loro minerali non fossero molto dissimili dai tipi usati per la cottura della ceramica, nei quali si raggiungevano temperature di 700 ÷ 900 °C. Ma per realizzare il salto di temperatura necessario a rendere possibili i processi metallurgici, è indispensabile forzare l’immissione di aria per favorire la combustione. I forni usati fin dai primordi in molte metallurgie per l’operazione di prima fusione, anche se enormemente diversi gli uni dagli altri, hanno in comune delle caratteristiche essenziali che tuttora li contraddistinguono come uno dei mezzi produttivi più efficienti della metallurgia per via ignea, detta anche pirometallurgia. Sono forni a tino con carica costituita da minerale e carbone di legna (elemento fondamentale del processo) diversamente proporzionati a seconda delle materie di partenza.
Forno a Tino
L'alligazione
A parte l'oro, il primo metallo utilizzato dall'uomo, a questo stato delle conoscenze, deve indubbiamente ritenersi il rame nativo, la cui scarsità non poté subito esercitare sulla evoluzione della civiltà, ancora tipicamente orientata verso l'uso degli strumenti litici, quella decisa rivoluzione tecnologica, che venne posta in atto dalla scoperta dei metodi di riduzione dei minerali cupriferi e, in un secondo tempo, dai metodi di alligazione con lo stagno.
La vera storia della m. incomincia, in realtà, dal momento nel quale l'uomo giunge a rendersi conto che taluni minerali, trattati ad alta temperatura, in presenza di carbone, si riducevano in una massa liquida, che colata in una cavità predisposta, ne assumeva fedelmente la forma, solidificandovisi.
Varie considerazioni tecniche portano a ritenere che i primi fonditori di rame si limitassero a utilizzare il metallo, per solito impuro, sotto forma di rozzi pani o lingotti, che subivano, in un secondo tempo, un lungo lavoro di battitura, secondo la tecnica già impiegata per l'oro e il rame nativo, per ottenerne piastre sottili, lame di pugnali e di daghe, e strumenti taglienti.
Un buon esemplare di questa tecnica è rappresentato dalla statua del faraone Pepi I (circa 2300 a. C.), realizzata per la massima parte con lastre di rame quasi puro, sbalzate a martello, e unite mediante chiodi ribaditi, a parti ottenute di getto.
Soltanto in qualche caso meno frequente, gli utensili più massicci venivano
colati direttamente in forme di pietra: si conservano infatti numerosi esemplari di asce di rame puro, la cui forma ricorda molto da presso i più tardi modelli litici; esemplari, ottenuti sicuramente con questa tecnica, che rappresenta il primo passo verso una evoluzione che raggiunse il suo colmo con la scoperta del bronzo.
Ricercare come, dove e quando ebbe origine questa evoluzione, che mutò radicalmente la tecnologia metallurgica e dischiuse alle popolazioni che ne ebbero conoscenza le porte di una nuova èra - l'Età del Bronzo - è impresa ardua e largamente aperta alle ipotesi. Sembra comunque ragionevole supporre, in base ai reperti, che le popolazioni sumeriche (v. mesopotamica, arte) giungessero, prima di altre, a disporre di una abbastanza precisa conoscenza delle proprietà delle leghe di rame e di stagno. Alcuni esemplari trovati negli scavi di Ur e databili fra il 3000 e il 2400 a. C. mostrano già una consapevole tecnica di alligazione in rapporto all'uso: un'ascia proveniente da questi scavi denunciò all'analisi un contenuto di 11% Sn (+ 0,6% Ni) che appare al tecnico moderno come la composizione più adatta per raggiungere, a un tempo, una buona durezza e una sufficiente plasticità per reggere l'imbatto senza scheggiarsi o perdere il filo.
Non bisogna tuttavia credere che il bronzo elaborato dai più antichi artefici rispondesse sempre ad un preciso rapporto di alligazione: l'utilizzazione di minerali più o meno impuri, l'uso di metallo delle più diverse provenienze, l'incapacità di valutare e controllare la composizione delle cariche, ponevano il fonditore in condizione di produrre manufatti di proprietà variabili e talora scarsamente adatte all'uso. Tenori talvolta molto sensibili di ferro, di piombo e di arsenico si sono trovati nei bronzi antichi, con conseguente peggioramento delle caratteristiche fisico-meccaniche delle leghe propriamente binarie Cu-Sn, che costituiscono i bronzi più puri (v. bronzo).
Anche il nichelio (Ni), che non costituisce tuttavia una impurezza dannosa, si ritrova frequentemente nei bronzi antichi, in dipendenza della utilizzazione di particolari minerali cupriferi contenenti tracce sensibili di questo elemento, del tutto sconosciuto, del resto, come tale, nell'antichità.
A partire dal 1400 circa a. C. il bronzo domina completamente la tecnica metallurgica del mondo antico, e penetra coi traffici commerciali, fin nelle più lontane regioni. Ne segue una profonda mutazione nelle forme tradizionali dell'armamento: la corta daga di rame battuto, buona soltanto a ferire di punta, derivata direttamente dai vetusti prototipi di selce, lascia il posto alla snella e affilata spada di bronzo, gettata in forma di pietra ("conchiglia") e battuta sul filo, atta a ferire di punta e di fendente. Contemporaneamente, si viene perfezionando la tecnica della fusione in staffa e in cera persa, cui il bronzo apporta le sue peculiari caratteristiche di colabilità, così deficienti nel rame puro: questa tecnica si trasferisce rapidamente ai metalli preziosi, l'oro e l'argento, cui già le tecniche di battitura a freddo consentivano elaborate e complesse trasformazioni. Un esempio rimarchevole è dato dal sarcofago d'oro massiccio del faraone Tutankhamon, morto nel 1349 a. C. Il sarcofago riproduce in grandezza naturale l'effigie del faraone, pesa 101,6 kg e venne realizzato di getto e ripassato finemente al bulino, con una maestria che non ha nulla da invidiare alla più raffinata tecnica moderna .
Le antiche tecnologie metallurgiche
I primordi della siderurgia
I primordi. Fin da epoche remote furono sviluppate tecniche di trasformazione dei metalli per la produzione di attrezzi agricoli e di armi per la caccia e la difesa. In una lunga fase il principale minerale utilizzato fu il rame, che venne in seguito addizionato con alluminio, nichel, berillio e soprattutto stagno; fu proprio la lega di rame e stagno, cioè il bronzo, a identificare un lungo periodo della civiltà. La lavorazione del ferro e le prime leghe furono introdotte per ottenere un materiale più lavorabile e aumentarne le caratteristiche d’utilizzo. Dal 12° sec. a.C. i luoghi di estrazione, come l’Isola d’Elba, divennero anche i primi centri di trasformazione del ferro.
1. Storia
1.1 Antichità e Medioevo. La ragione della ritardata comparsa del ferro rispetto al bronzo e al rame va ricercata nelle difficoltà che si incontrarono per ottenerlo, difficoltà connesse all’esigenza di raggiungere temperature elevate in un ambiente convenientemente riducente. Pertanto il primo ferro fu ottenuto allo stato pastoso in forma di blocchetti che dovevano poi essere faticosamente foggiati per battitura: esso era naturalmente ricco di scorie, in parte eliminate in seguito alla lavorazione meccanica. La tecnica seguita dagli antichi metallurgisti è stata chiarita principalmente dai ritrovamenti archeologici di residui di forni fusori. Tra i primi forni impiegati furono i cosiddetti ‘bassifuochi’, che ebbero probabilmente per progenitori i forni indiani: questi erano composti in sostanza di un letto di terra refrattaria sul quale si disponeva del minerale misto a carbone, la cui combustione si attivava con rudimentali mantici a mano. Il bassofuoco, o forno catalano, constava di una fossa scavata nel terreno, con le pareti rivestite di pietre e di argilla refrattaria, nella quale si caricavano carbone di legna e minerale ferroso. La combustione era attivata con mantici a mano e il ferro era di solito ottenuto allo stato di massello.
Successivamente si pensò di allestire i forni, invece che per escavazione nel terreno, sviluppandone le dimensioni verso l’alto, costruendoli cioè con una parte centrale in argilla refrattaria, sostenuta in un primo tempo a mezzo di terra e pietre e poi con opere murarie di sostegno vere e proprie. Si andavano così delineando i primi forni a tino (come i forni a osmund in Svezia e Finlandia, attivi in queste regioni fino al 1860; i famosi Stücköfen tedeschi; il forno a tino descritto da Vannoccio Biringuccio nella sua opera De la pyrotecnia, 1540 ecc.).
Mentre nei bassifuochi si otteneva un prodotto impuro a causa delle scorie, ma assai poco carburato (e quindi costituito essenzialmente da ferro), nei forni a tino si poteva realizzare, inizialmente in modesta misura e poi con l’affinarsi della tecnica in ragione crescente, una carburazione del prodotto di riduzione, conseguente a una più o meno apprezzabile concentrazione di carbonio nel ferro. Tale azione carburante dei forni a tino si intensificò bruscamente quando, alla fine del 13° sec., si introdusse in Germania l’uso della ruota idraulica per azionare i mantici dei forni fusori. Le conseguenze di questa modesta innovazione furono enormi: la combustione più attiva che ne derivava e il relativo raggiungimento di temperature più alte permise di ottenere un prodotto non più allo stato pastoso ma fluido.
Grande tuttavia fu la delusione dei metallurgisti quando si accorsero che tale prodotto, una volta fatto solidificare, non presentava più quelle spiccate caratteristiche di malleabilità e soprattutto di saldabilità che rendevano così
pregiato il ferro ricavato in forma di masselli. Era in effetti nato un nuovo prodotto siderurgico, duro e fragile, non costituito in realtà da solo ferro ma da una lega del ferro con il carbonio, cioè la ghisa. Questo fu il motivo per cui gli antichi Stücköfen tedeschi assunsero poi il nome di Flossöfen, volendosi con ciò indicare che essi erano espressamente destinati alla produzione di un prodotto che veniva ottenuto allo stato liquido. Ciò avvenne verso il 1450, quando si erano già realizzati notevoli progressi nell’arte di gettare la ghisa e quando si comprese l’utilità di trasformare questa in ferro, cioè in un prodotto meno carburato, valendosi delle proprietà tipicamente affinanti del bassofuoco. 1.2 Età moderna. Furono così poste le basi della moderna tecnica siderurgica, con la fondamentale acquisizione che, per ottenere il ferro (o comunque un acciaio, cioè una lega a basso tenore di carbonio), conviene passare attraverso un prodotto più carburato ottenuto allo stato liquido (ghisa) e sottoporre quest’ultimo a conversione con adatti sistemi, così da ridurne tra l’altro il tenore di carbonio sino a portarlo alla percentuale voluta. Inoltre si realizzò così un altro principio fondamentale dell’industria moderna, quello della continuità dell’operazione: nei Flossöfen infatti si aveva produzione continua di ghisa mentre nuovo minerale, misto a riducente, veniva caricato alla bocca del forno.
Si introducevano intanto in Inghilterra notevoli migliorie tecniche: nel 1475 furono impiantati i primi forni continui per la fabbricazione della ghisa, già sperimentati in Germania. Tuttavia lo sviluppo dell’industria siderurgica fu almeno in un primo tempo ostacolato dalle leggi restrittive che il governo inglese fu costretto ad applicare per la salvaguardia del patrimonio forestale, che andava rapidamente esaurendosi in seguito all’impiego del carbone di legna nei forni fusori. Il problema, che condusse in pratica per alcuni secoli a un arresto dello sviluppo della s., fu risolto in Inghilterra, dove si pensò di sfruttare come mezzo riscaldante e riducente il carbon fossile. Dopo vari tentativi infruttuosi, A. Darby (1730), sottoponendo a distillazione secca il carbon fossile, ottenne per la prima volta il coke, prodotto che nel giro di pochi decenni avrebbe in buona parte sostituito, in Inghilterra, il carbone di legna. L’uso del coke, che brucia più difficilmente del carbone di legna, impose la necessità di aumentare la pressione dell’aria iniettata nei forni: questo ulteriore problema fu risolto, sempre in Inghilterra, quando si pensò (1775 ca.) di applicare la macchina a vapore di Watt per azionare le soffianti per l’aria, fino allora funzionanti a mezzo di ruote idrauliche. Grazie a queste varie innovazioni, sulle quali seppe gelosamente custodire il segreto, l’Inghilterra si trovò alla fine del Settecento in condizioni di assoluta egemonia rispetto ai paesi europei.
Forni Siderurgici Etruschi
Bibliografia:
http://www.treccani.it/enciclopedia/met ... e-Antica)/
Metallurgia,Walter Nicodemi
Approfondimenti:
qui